Una collezione moderna
Breve storia delle cose aldrovandiane
Ogni collezione racchiude un’immagine di realtà. Questa definisce cosa il collezionista ritiene sia prezioso, cosa crede valga la pena custodire, cosa pensa sia utile per comunicare un’immagine di se stessi e del posto che si occupa nel mondo.
In epoca rinascimentale il collezionismo visse una stagione di straordinario successo. Dal Nord Europa le cosiddette Kunstkammer o Wunderkammer private, traboccanti di oggetti - curiosi e meravigliosi, esotici, locali, autentici, contraffatti, naturali e artificiali - posti l’uno accanto all’altro, raggiunsero l’Europa Mediterranea, divenendo un diffuso modello per l’allestimento delle collezioni. Attraverso gli oggetti si esibivano i mezzi economici, le connessioni e lo status sociale del collezionista, i cui tesori venivano disposti secondo una logica che intendeva rivelare una visione del mondo.
Questa configurazione della collezione, pensata per strabiliare lo spettatore con i suoi tanti elementi, inevitabilmente influenzò anche Aldrovandi che tuttavia rielaborò tali modelli, in un modo del tutto originale, finendo per distanziarsene (Tugnoli Pàttaro 2004, p. 17). Aldrovandi abbandonò ben presto l’impostazione onnicomprensiva per sperimentare una diversa tipologia di allestimento, sposando una diversa logica, decisamente più scientifica per creare il suo microcosmo, il suo teatro di natura.
La collezione per Aldrovandi doveva essere prima di tutto la trasposizione, ordinata e coerente, del lavoro di ricerca naturalistico, frutto a sua volta dell’osservazione diretta. Questo non significa che Aldrovandi ignorasse l’impostazione enciclopedica, ereditata anche dalle trattazioni degli autori antichi; o che fosse insensibile alle suggestioni dei cabinets pieni di oggetti considerati eccentrici, con le disposizioni “ad effetto” dei musei dei suoi contemporanei. Ma antepose a tutto questo un criterio di scientificità che tendeva a prevalere sul resto.
Non a caso il museo di Aldrovandi era prima di tutto uno studio. Un luogo di indagine e di riflessione, prima che di contemplazione e intrattenimento. La collezione si trovava nella stessa abitazione di Aldrovandi, ordinata in scaffali che ospitavano reperti e campioni, suddivisi essenzialmente per specie, ma distribuita anche appendendo gli oggetti al soffitto. Gli esemplari naturalistici (naturalia) tendevano a superare i manufatti (artificialia); le due tipologie convivevano come parte di un microcosmo che dialogava continuamente con le fonti e le immagini. La collezione interagiva quindi con tutta una serie di attività parallele che Aldrovandi considerava parte integrante del suo lavoro museografico, quali il registro dei visitatori, la versione illustrata della collezione e l'elenco degli oggetti che auspicava di acquisire e che Olmi definisce la versione "virtuale" del museo (Olmi 2004, p. 23).
Scaturita dal nucleo originale del 1549, la collezione, distribuita in sei stanze, venne traferita nel 1617 nel Palazzo Comunale di Bologna. Nel 1660 venne affiancata al Museo del Marchese Ferdinando Cospi e infine spostata nel 1742 all’Istituto delle Scienze di Luigi Ferdinando Marsili a Palazzo Poggi, non senza deleteri effetti di sovrapposizione tra le due collezioni, fino ad allora separate, ora smembrate e suddivise secondo nuovi criteri.
La planimetria di Carlo Francesco Dotti (prima metà del XVIII secolo) e gli inventari del 1696 e del 1742, sono utili per comprendere come doveva presentarsi l’allestimento prima del trasferimento a Palazzo Poggi.
Il museo di Aldrovandi era composto da un’ampia galleria con vari mobili (scansie) in cui erano raccolti gli oggetti cartellinati, così distribuiti: reperti marittimi nella prima scansia; marmi e pietre nella seconda; resti animali, vegetali e vari manufatti etnografici nella terza; fossili e altri manufatti nella quarta. Completavano l’esposizione i cosiddetti "pandechion seu chimiliarchium", armadi con cassette, di cui probabilmente solo uno venne trasferito a Palazzo Poggi; la raccolta di rettili, insetti e anfibi sotto spirito e dei pesci essiccati, nonché gli esemplari appesi al soffitto per esigenze di spazio e scenografiche. Le altre stanze erano occupate dalla biblioteca e dal resto del patrimonio aldrovandiano di manoscritti, tavole ad acquerello, erbario, strumentazione varia. La gestione del Museo venne affidata a dei custodi, progressivamente sempre più influenzati dal gusto barocco e interessati a promuovere l’attrattività delle “curiosità” presenti nella raccolta, più che il loro valore scientifico. Nel corso di questa fase diversi oggetti si smarrirono.
Con il trasferimento a Palazzo Poggi la collezione Aldrovandi perse definitivamente la sua unitarietà, compromessa dapprima dalla fusione con la collezione Cospi e in seguito dal frazionamento e riorganizzazione, previsti dall’adozione dei nuovi criteri museografici dell’Istituto delle Scienze.
Parte degli oggetti e del patrimonio librario vennero poi saccheggiati dall’amministrazione napoleonica, giunta a Bologna dopo l’invasione francese nel 1796, trasferiti a Parigi e solo parzialmente restituiti dal 1815. Molti oggetti subirono danneggiamenti, altri si smarrirono nei vari trasferimenti imposti dalle riforme napoleoniche o nei vari accorpamenti di materiali, prima e dopo la restituzione francese, con dispersioni provocate anche dalla perdita dei cartellini originali.
Dal 1846 al 1852 il nuovo custode del Museo, Giovanni Giuseppe Bianconi, curò un riallestimento della collezione, recuperando i cataloghi compilati dal precedente direttore Giuseppe Monti, per quanto mancanti di alcune informazioni cruciali sulle prime fasi di vita della collezione. La raccolta, accorpata ad altre presenti nel Museo di Storia Naturale, venne ulteriormente divisa nel 1860, quando il Museo di Storia Naturale stesso venne a sua volta scorporato, dando vita ai musei di Mineralogia, di Geologia e Paleontologia e di Zoologia. Il nuovo curatore Giovanni Capellini fece restaurare e ricollocare alcuni reperti aldrovandiani nel museo di Geologia. Altri spostamenti riguardarono l’Erbario, acquisito dalla Biblioteca Universitaria (1874) e alcuni manufatti trasferiti al Museo Civico Archeologico (1881). Una perdita notevole fu quella dovuta alla cessione di oggetti americani a Luigi Pigorini (1878) che li portò a Roma, dove tutt’ora si trovano, nell’allora Regio Museo Nazionale Preistorico Etnografico.
La collezione iniziò a ritornare a Palazzo Poggi, nella sala di Benedetto XIV, dal 1907, in occasione del tricentenario della morte di Aldrovandi, con un allestimento in teche, via via modificato nel tempo e con l’aggiunta di spazi nel 2005. L’ultimo riallestimento in ordine di tempo è del 2022-2023, inaugurato in occasione del cinquecentenario della nascita dello studioso e pensato per restituire il senso dell’antico studio di Aldrovandi che metteva al centro lo sguardo dello scienziato. Questo non contiene solo oggetti raccolti da Aldrovandi, molti dei quali sono purtroppo andati perduti, rimpiazzati da reperti di diversa provenienza che oggi dividono le teche con i tesori di Ulisse. I viaggi, le perdite, gli scambi entrano così a far parte della storia della collezione e diventano parte della sua biografia che si dispiega davanti ai nostri occhi, oggi che lo spirito dell’antico teatro di natura di Ulisse è stato riscoperto.
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