C’è un oggetto nella collezione Aldrovandi che attira poco l’attenzione. Si tratta di un esemplare minuto, apparentemente ordinario, che si presenta come il guscio di un granchio. È tecnicamente un carapace, appartenente ad un tipo di crostaceo di un genere estinto, una Lophoranina. Un fossile, dunque. Indicato dal professor Ranzani come proveniente, forse, dai monti Lessini Orientali (Vicenza) e scambiato da Aldrovandi per una seppia (Sepites) dall’agro bolognese, risale probabilmente all’Eocene (circa 55 milioni di anni fa). La denominazione tecnica di questo reperto è Lophoranina Aldrovandi o più comunemente Ranina Aldrovandi, uno dei reperti più importanti della collezione (fig.1). Non è solo uno dei pochi esemplari della vasta raccolta di fossili e minerali sopravvissuti alle tante vicissitudini che ne hanno nel tempo provocato la dispersione e la sovrapposizione con pezzi di differente provenienza.
Ma è anche una delle testimonianze più interessanti della curiosità di Aldrovandi verso i materiali geologici e paleontologici. Non che Aldrovandi considerasse i fossili (fig.2) con la medesima sensibilità di oggi, non cogliendone pienamente il processo di formazione. Ne scrisse nondimeno nell’opera Musaeum Metallicum (1648). La “ranina” emerge, in particolare, perché è un olotipo, ossia il primo esemplare noto di una specie, da cui può iniziare una classificazione, a dimostrazione della preziosità del lavoro di Aldrovandi (Sarti 2003, pp. 160-161).
Un lavoro fondato sulla ricerca esplorativa e vivace dei tre regni (minerale, vegetale e animale) attraversandone anche la dimensione del tempo, sempre tentando di aggiungere il proprio contributo alla conoscenza generale. Aldrovandi è uno dei primissimi scienziati a denominare come tali le ammoniti (ammonites) e non con il nome più comune di corno di Ammone (Sarti 2023, p. 161). Nella collezione ve ne sono almeno due: una è un calco di Siderammonites proveniente dal veronese, l’altra è un modello di fossile dell’appenino umbro, dalla curiosa forma spiraleggiante che ricorda un serpente, tanto che Aldrovandi la denominò Ophiomorphites (dal greco ophis, serpente, fig.3). Ma c’è posto anche per fossili calcarei di coralli, qui noti come Pietra Stellaria (fig.4).
A proposito di ambienti acquatici, gli esemplari ittici, molti afferenti al Mediterraneo ma non solo, sono tra i più numerosi nella collezione in sala e spiccano nell’allestimento zoologico: dalla testa imperiosa dello Smeriglio (fig.5), alle Mandibole di Squalo (fig.6), entrambi di attribuzione non aldrovandiana, fino all’elegante Pesce Violino (fig.7). Quest'ultimo, proveniente forse dal Golfo di Napoli, è oggi poco presente nei mari italiani; descritto anche nel De Piscibus, venne probabilmente inviato ad Aldrovandi dal naturalista genovese Bernardo Castelletto, a riprova dell’esistenza di un sistema di comunicazione tra i naturalisti del ‘500, impegnati in un’opera collettiva di costruzione del sapere, al di là del permanere delle credenze popolari.